OPERA 70
IL LANAIOLO
(70x50) 1985
Descrizione
L'ultimo lanaro noi l'abbiamo conosciuto vent'anni fa a
Cerqueto di Fano Adriano, grazie a don Nicola Jobbi, e
l'abbiamo poi visto all'opera nel castello di L'Aquila, in
una mostra di artigianato abruzzese cui dovemmo in qualche
modo collaborare.
Ci siamo più volte sorpresi ad ammirare l'ingegno e la
pazienza laboriosa dei padri, e a rammemorare questi
mestieri preziosi, che riempirono anche le nostre giornate
infantili, prima dell'ultima guerra, e che la Scipione ci
minia di bel nuovo con memoria strabiliante, con cura
demologica, con animo sempre commosso.
In quest'opera recentissima tutto è minutamente descritto,
dal cardatore impegnato sullo scardasso ai due cestoni di
vimini con la lana greggia e l'altra già lavorata, dalla
giacca appesa sopra la scopa alle «reste» d'aglio e di
cipolla, dal grande camino alla culla e al carriolo...
E gli oggetti e
le persone - nella nota grande cucina - si fanno segno e
gesto, s'affoltano su una stele levigata
d'affetti
e di nostalgia.
Nomenclatura-folk
Il lanaiolo
(lu lanare)
era un personaggio importante nella passata civiltà
agro-pastorale; n'è conferma sulla tela il vino offerto
dalla massaia con
bicchiere su piatto, come si usava con persone di
riguardo. Oltre che lavorare a domicilio, più spesso il
lanaiolo si aggirava nel contado passando da un casolare
all'altro e recando
sulle spalle lo strumento per cardare la lana
(li
scardizze).
Per prima cosa
s'inumidiva la lana con
qualche goccia di olio
di oliva e la si comprimeva in una cesta perché si
ammorbidisse in modo uniforme; quindi si piazzava lo
scardatore con la parte inferiore poggiante sui due piedini
divaricati e la
tavolettafermaglio
posata sopra una sedia; sedendo su questa e a cavalcioni
sulla tavoletta,
l'operatore prelevandone
dalla cesta una manata
per volta, stendeva in modo uniforme la lana sul
piano inferiore
dell'attrezzo (carecà li scardizze),
quindi con quello superiore agiva in avanti-in-dietro per tre/quattro
volte fino a
ridurre la lana a due soffici rotoli detti
li
micillune,
che ad una seconda
passata ne divenivano quattro più sottili,
li
micille,
già pronti per andare al filatoio
(lu filarille); i
piani dello scardatore
del formato di cm.
80x26,
erano inclinati in avanti di cm.
5 sull'altezza media di cm.
52,5.
Se la lana era molto
pulita, in una giornata lavorativa
si riusciva a cardarne
da tre a quattro
chilogrammi, ma la misura media era di kg.
2,5/3.
Uno degli ultimi
lanaioli della zona, il sig. Enrico
Laielli detto «lu lanare
de Villa Alzane» e che iniziò l'attività nel
1954,
pagò lire
500 il
primo scardatore, ed
era pagato i
lira per ogni chilo di lana cardata; ma spesso preferiva
essere compensato
in generi:
«A
mma
servave cchiù nu
punjelle de 'rane che li sulde» =
a me era più utile un
pugno di grano che la moneta; la clientela di
Castelli invece preferiva pagare in «piatti», dandone uno
per ogni kg. di cardato.
Spesso i lanaioli della
Valle Siciliana e dintorni
si univano in gruppi, e
nella stagione calda
organizzavano trasferte
in altre regioni rientrando prima dell'inverno.
Un gruppo capeggiato da
Francesco Di
Nicola di Valle Jancra (il papà del fecondo scrittore Giulio
Di Nicola) e da Enrico Montaùti di
Tozzanella si recava in
Romagna; il papà Francesco con il figlio Achille Lebrini
di Azzinano
battevano la
campagna romana, mentre Pietro Tomassetti di Flamignano
con i congiunti
Tommaso e Domenico e l'àmico Vincenzo Coccagna si spingevano
in Toscana. Al rientro, le serate invernali
erano passate intorno al
fuoco per
raccontare a familiari e amici le vicende sempre nuove di
tali avventurosi viaggi; come prima cosa, per
tutelarsi dal mondo esterno tra loro parlavano sempre in
dialetto, e solo per farsi capire dagli altri
si sforzavano a parlare un
po' d'italiano.
Esattamente per incutere
rispetto, e talvolta timore, il folto gruppo dei cardatori
(li lanire)
di
Pietracamela nei
secoli passati ha coniato un proprio «gergo», capito solo
nella cerchia e detto «parlare
in
trignana»;
dopo accurate ricerche
presso i pochi anziani che diecine d'anni fa ancora lo
parlavano
correntemente, mi sembra di poter concludere che l'ingegnoso
espediente depone per la creatività non
comune della gente
«montanara», mantiene un certo interesse per la storia
locale e la psicologia del
linguaggio, ma riveste
poco o nessun interesse nel campo propriamente glottologico.
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