OPERA 13
IL FRANTOIO
(100x80) 1973
Descrizione
Stupisce
la memoria icastica e infallibile di Annunziata bambina, la
sua capacità di notare un particolare anche minimo e di
restituircelo senza ambagi e senza lacune dopo decenni. Come
nella grande tela precedente, la pittrice vuole soprattutto
raccontare, se lo è imposto, e tutto ciò si sente: la
completezza e le minuzie della narrazione non vogliono
ambire, è quasi un proposito, all'ispirazione e al canto.
Nomenclatura-folk
Col 20 di novembre iniziava l'attività del
frantoio (lu trappìte), macinando l'uliva caduta prima della
raccolta (la liva cacche); lavorava ad orario continuo e ad
ogni turno vi erano addetti in media quattro operai (li
trappitire): era un lavoro duro, interrotto talvolta da
qualche canto allegro, come per es. Quanne Marije la va 'n
campagne, per far passare il sonno o dimenticare la
stanchezza.
All'antico torchio ligneo «a
leva» della tela, dopo la prima guerra mondiale cominciò a
subentrare quello metallico «a fiecche» = biette alternate
facenti leva sui fori del disco rotante; oggi è
generalizzato il torchio o strettoio idraulico azionato a
motore elettrico. Il rialzo su cui girava la macina era
chiamato «l'addare» (altare).
Il torchio, tutto in quercia «arfatte»
(-stagionata), era costituito da una solida base (lu delfine)
a cui erano fissati per incastro due montanti laterali (li
culonne), collegati in alto con robusta traversa (la mirle);
al centro di questa era la filettatura (la 'mpanature) per
il passaggio della grossa vite, il tutto eseguito con tornio
artigianale. Per stagionare al massimo ('ntustà) i tronchi
destinati a base e soprattutto a traversa superiore, questi
erano tenuti interrati per vari decenni (talora fino a 50
anni ed oltre!); rappresentavano un valore, evidenziato
anche nei testamenti o vendita di terreni.
Per lubrificare la vite si
usava il grasso o sego non salato di montone (lu same),
analogo a quello suino (la 'ssógne) usato per ungere gli
scarponi invernali. La pressione della vite era esercitata e
regolata dalla lunghezza della stanga (la varre) infilata
nella testa della vite stessa e azionata dai quattro operai;
talvolta si ricorreva all'argano, come nella tela. Il camino
col grosso caldaio di rame
(lu
callarone)
assicurava l'acqua tiepida
(stemperate) per
nettare la catasta dei friscoli dopo la spremitura,
raccogliendone l'olio rimasto aderente.
Davanti al torchio, e protetta da erti
tavoloni di quercia sui quali poggiavano gli operai, c'era
«la
fonte» = pozzetto di
raccolta della spremitura, eseguito in muratura; terminata
la decantazione, l'olio galleggiante su «l'acquavicce» o «guicce»
(acquaccia) era prelevato prima con un mestolo e poi quando
ne restava uno spessore di qualche centimetro, si usava «lu
mappe» o «cucchjire»; per questo lavoro occorrevi una certa
valentia. Prelevato così l'olio, tutto il rimanente passava
a «lu 'mberne», altro pozzo più grande munito di sifone
sottolivello, che
mentre faceva decantare i depositi ed affiorare l'olio
residuo, a circa metà altezza consentiva il deflusso
dell'acquaccia all'esterno, la quale si perdeva nei campi
diffondendo il tipico odore di frantoio. A fine stagione,
nel deposito si poteva raccogliere fino a mezzo metro di
olio durissimo e verdognolo, usato per lo più per fare il
sapone (cf. Opera 59).
La qualità dell'olio dipendeva dalle
fermentazioni subite dall'oliva dopo la raccolta e prima
della lavorazione: quello di «prima calle» (dopo circa 6
giorni) era dolce; quello di seconda (dopo 12/ 13 giorni)
era acido; quello di «terza calle» (da 14/ 15 giorni in poi)
era acido forte e verdognolo quasi come quello del deposito
stagionale (lu
'mberne).
Quando si condiva con olio
«forte», e perciò usato dai poveri e con parsimonia, si
condiva a gocce usando il fuso o altro stecco di legno; era
considerata una maledizione cocente l'augurio:
Pozza magnà li
fuje nghe lu fzuse!, cioè
ridursi alla fame nera. Quasi
tutte le famiglie macinavano alla prima fermentazione per
avere un olio migliore; solo i poveri ricorrevano alla
seconda, e solo in casi eccezionali ci si rassegnava alla
terza.
Otto erano le misure consuete
per olio: 1)
lu metre =
It.
22; 2)
lu mezzemetre =
It. 11;
3) lu
petìtte =
It.
4; 4)
la fijatte =
It. 2;
5)
la garaffe =
It. 1,250;
6) lu
hòmmele =
misura indeterminata per
uso di giornata; 7)
la
giarratte = in latta
zincata e beccuccio per condire;
8)
lu fzuse o «la
cippalle» per
condire a gocce ed economizzare:
L'uje sta pe
finì, s'ha da 'ccuncià nghe lu fiuse!
Per conservare l'olio in casa,
cinque erano i recipienti più comuni:
a)
la tenille =
tino in legno
stretto e alto; b)
la tine
=
tino largo e basso;
c)
la préte =
pietra incavata (nel basso
teramano
è
detta
la sire,
dal gr. siròs =
recipiente scavato, ricettacolo);
d)
la petarre =
orcio (vaso panciuto
di terracotta) dal gr.
pithàrion
= piccolo orcio; e)
bandone = contenitore in lastra zincata (nelle zone montane
era assai raro per le piccole quantità disponibili di olio).
|